Dal 25/02/2021 al 18/03/2021
A cura di Gabriele Salvaterra
Nel suo libro pubblicato per la prima volta nel 1959, “Il divenire delle arti”, Gillo Dorfles stabilisce chiaramente una delle conquiste della pittura novecentesca che sarà un punto di non ritorno per tutte le sue successive esperienze. “La superficie della tela che un tempo fingeva di essere uno spazio tridimensionale finalmente torna ad essere solo una superficie bidimensionale. E da questo momento in poi, tutta la superficie viene data ad un nuovo valore". Questo riconoscimento apparentemente piuttosto banale e limitante rivela una serie di possibilità precedentemente inespresse che possono sviluppare inaspettatamente approcci infiniti. Da ciò, conclude Dorfles, ne consegue che «dobbiamo anche conferire a quella superficie il valore di dialettica 'protagonista' - o almeno di deuteragonista - complementare a quella della forma che ad essa è circoscritta e contrapposta».
La mostra “A fior di pelle”, a partire dal confronto tra le ricerche antitetiche dei maestri storici Enrico Castellani (Castelmassa, RV, 1930 - Celleno, VT, 2017) e Paolo Schiavocampo (Palermo, 1924), rappresentati da un'opera iconica per ciascuno, racconta una serie di declinazioni artistiche in grado di sondare le incredibili qualità della pelle pittorica. Nonostante la sua bidimensionalità e il suo riduzionismo, la superficie mostra infatti una vivacità inesauribile, come indicato anche nelle ricerche delle più recenti generazioni di Barbara Colombo (Vimercate, MB, 1969), Lorenzo Di Lucido (Penne, PE, 1983), Ludovico Orombelli (Como, 1996) e Rolando Tessadri (Mezzolombardo, TN, 1968).
Castellani e Schiavocampo evidenziano due possibili modalità di utilizzo della superficie come dispositivo a sé stante. Da un lato il trattamento rigoroso, ritmico e matematico dei suoi sviluppi tridimensionali, dall'altro il concreto, materiale e fattuale che lo riporta al flusso della quotidianità.
Enrico Castellani è, infatti, presente con un lavoro di medie dimensioni, un Senza Titolo del 1967, che nella sua semplicità indica un importante polo di questo discorso. Si tratta di un rettangolo monocromatico con una stesura quasi industriale, non ci sono segni o gesti ma il suo trattamento coloristico è assicurato alla più completa inespressività razionale.L'intero valore artistico è quindi affidato alle stesse modulazioni del supporto che, nella pratica sviluppata a fianco di Piero Manzoni dalla fine degli anni Cinquanta, tende ad animare la superficie del dipinto, altrimenti lasciata ad una unità tonale algida. La differenza tra le due personalità principali del movimento Azimut / Azimuth è chiarita dallo stesso Castellani che, in un'intervista, afferma: "Anche dopo tanto tempo direi che la differenza sta nel fatto che sono sempre stato legato alla superficie e all'oggetto, alla loro analisi e definizione, mentre Manzoni si preoccupava di lavorare su gesti e comportamenti. Così la superficie del dipinto, considerata nella sua qualità di oggetto semplice, si apre alla relazionalità dell'ambiente, alla luce, alle ombre e quindi al “ritmo” che è in grado di creare sulla base di una dinamica “semplice” ma molto sofisticata di concavità puntinista e di convessità del piano pittorico.”
Per certi versi l'attività di Paolo Schiavocampo è più ampia e caleidoscopica, un artista con una lunga esperienza radicata nel Novecento, che, inizialmente formato all'architettura, considera la sua attività al di là delle discipline, essendosi occupato non solo di pittura, ma anche di scultura, urbanistica e costruzione in senso lato. La superficie che viene proposta, ad esempio, dai Cementi degli anni Novanta è di natura completamente diversa da quella di Castellani, nutrita dalla multidisciplinarietà che la caratterizza. Luigi Erba definisce questo corpus: “Sono miscele di materiali vari che il cemento lega, ricordi di muri, persistenza di finestre, di vicoli. È quasi un rinnovamento materico dell'eredità dell'informale, investita di una profonda sensibilità architettonica e costruttiva. Una superficie diversa che ci porta verso il basso, verso il corpo e la realtà urbana che circonda l'esperienza dell'uomo contemporaneo. Nel lavoro in mostra, dalla serie degli Arazzi più recenti (2015), queste suggestioni sono distillate in una serie di "lacrime" coloristiche che conservano sulla pelle segni operativi di matrice cromatica.”
Tra questi due estremi significativi, le proposte di Colombo, Di Lucido, Orombelli e Tessadri si muovono tra manualità pittorica, tautologia, sinestesia tattile e procedure di stampaggio, rilanciando le potenzialità della superficie nel nuovo millennio e rendendola, ciascuna secondo le proprie inclinazioni, ancora protagonista.
Barbara Colombo, ad esempio, presenta opere appartenenti a due diverse serie, ma accomunate dallo stesso trattamento materiale/calcestruzzo della superficie, ottenuto con un complesso procedimento che sottopone la carta, le polveri di varia origine, le ceneri e i pigmenti alle ustioni e al calore del fuoco. L'opera risultante, un silenzioso rettangolo monocromatico, rivela ad un attento sguardo un'incredibile e profonda vivacità di pieghe e rughe che possono dare riflessioni esistenziali e poetiche alla pratica dell'artista. Nei frammenti più piccoli e delicati questa logica viene ulteriormente rafforzata, lasciando l'opera allo stadio di buccia pittorica con bordi frastagliati che si dispone liberamente sulla parete come in una costellazione mobile, composta da molti elementi interconnessi.
Lorenzo Di Lucido, rappresentante della giovane pittura italiana del nuovo millennio, lascia da parte ogni sperimentazione di materiali per sviluppare le sue misteriose calligrafie utilizzando olio, tela e cornice lignea, esattamente come avrebbe fatto un pittore quattrocentesco. Questa staticità del lemma pittorico affascina Di Lucido nella possibilità che possa essere contemporaneo e ancestrale allo stesso tempo. Nella serie di opere presentate, uniformate ad un verde intenso monocromatico, seguendo l'insegnamento di Robert Ryman, sembra che l'intento dell'artista sia semplicemente quello di "coprire interamente la superficie" e, così facendo, commentarla con gesti quasi invisibili perché limitati allo stesso colore. Occorre muovere il corpo e l'occhio per riscoprire un intero sciame di inaspettati valori pittorici, che ci fanno entrare nella foresta informale di una natura prima smembrata e poi ricomposta sul piano della tela.
Il giovanissimo e quasi emergente Ludovico Orombelli, pur dando molta importanza alla qualità cromatica e dimensionale delle sue produzioni, sembra voler attirare maggiormente l'attenzione sull'aspetto tattile della loro pelle come se volesse fare dell'occhio un “organo di tatto”. Infatti, questi teli dai contorni irregolari sono in realtà calchi di fogli, zerbini, tessuti e altri materiali da studio, utilizzati come matrici, dove l'opera finale è, infatti, un calco epidermico che introduce procedure decisamente scultoree nella sfera pittorica. In questo cortocircuito superficiale, Orombelli sembra mettere in atto la “somiglianza attraverso il contatto” teorizzata da Didi-Huberman, facendo dell'opera una traccia, un'impronta, di qualcosa che non è più presente (o che al massimo è ripiegato a terra vicino all'opera).
Rolando Tessadri riporta il discorso al suo inizio e a un territorio che per apparente autocontrollo e radicalità lo ricollega al paesaggio espressivo di Castellani, da cui siamo partiti. Opere modulari dalle raffinate corrispondenze e dai colori sottili sono ritmiche, questa volta senza alcuna concessione all'estroversione. Questo non è altro che un espediente tecnico che permette di collocare sulla superficie stessa del supporto la sua rappresentazione artistica, realizzata con una procedura di “frottage”. L'intreccio della tela reale e il suo raddoppio illusorio si incontrano nello stesso spessore infinitesimale del supporto, creando un effetto tautologico e rivelando, dietro l'apparente equilibrio di queste composizioni, una vertigine ottica estremamente dinamica e mentale.
Gabriele Salvaterra
Gennaio 2021