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Solide come colonne di marmo e altrettanto insondabili, le figure di Piero della Francesca paiono ergersi sopra l’umana fragilità, custodi di un’arcana saggezza e pregne di un mistero che attraversa i secoli giungendo inalterato fino ai giorni nostri.
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Il tempo non è stato generoso con le opere di Piero e non sono molte quelle che ci ha consegnato. In tutto poco più di una ventina, ma tanto potenti da aver scatenato da oltre un secolo la penna di critici e storici dell’arte, senza peraltro che mai nessuno venisse a capo dei loro misteri. Come se quegli universi alieni, tanto perfetti da poterli abitare ma troppo per essere veri, potessero riflettere in ogni sguardo solo uno spicchio di verità, al pari di uno specchio frantumato in cui ciascuno può intuire una parte di senso, ma non coglierlo per intero.
Una biografia piena di punti oscuri
Non meno avari di certezze sono i documenti che riguardano il maestro di Borgo. Dai primi rudimenti artistici appresi da Antonio d’Anghiari come pittore di bandiere e stendardi all'esperienza fiorentina accanto a Domenico Veneziano, che gli ha dischiuso i segreti della luce, fino alle prestigiose committenze per il signore di Rimini, Sigismondo Malatesta e per quello di Urbino, Federico da Montefeltro, passando per gli affreschi di Arezzo e le opere di Sansepolcro, i punti fermi sono pochissimi e la cronologia, gli spostamenti, le datazioni sono ancora nel campo delle ipotesi. Senza contare le opere di cui non resta più nulla, come gli affreschi al castello Estense di Ferrara citati dal Vasari, o quelli eseguiti a Firenze, ad Ancona, a Loreto, Bologna, Pesaro e anche a Roma per papa Pio II, questi ultimi forse ancora celati da qualche parte nelle stanze vaticane, sepolti sotto quelli di Raffaello.
Non servono però prove d'archivio per testimoniare lo spessore intellettuale di Piero della Francesca. Oltre alla trattatistica che ci ha lasciato sull'abaco, sulla prospettiva e sui cinque corpi regolari, sono i suoi luminosi dipinti di sublime armonia, abitati da immote geometrie a raccontare come l'arte di Piero sia profondamente intrisa delle filosofie neoplatoniche care alle menti più eccelse del suo tempo.
La Flagellazione
A testimonianza del fatto che questa piccola tavola, rimasta sepolta per secoli nella sagrestia del duomo di Urbino, è una delle opere più enigmatiche della storia dell'arte resta il fiume di interpretazioni che sono state azzardate su di essa nel corso degli anni e che sfiorano quasi la cinquantina.
Ma non c'è da meravigliarsene. Sedotti dal grande senso di equilibrio che ne emana e che dà l'illusione di percepire nelle sue proporzioni la musica segreta dell’universo, entrando alla Galleria delle Marche si tende a sostare a lungo davanti a questo dipinto, spiazzati dalla sensazione di trovarsi davanti a un enigma di cui non si possiede il codice. Perché il Cristo alla colonna, tema dell'opera, per la prima volta nella storia è stato relegato in un angolo? E chi sono quei tre personaggi in primo piano, che chiaramente non appartengono alla Galilea del tempo di Gesù, ma sono abbigliati come dei contemporanei di Piero? Poi c'è la luce, gemmea, altissima ma immobile, che accentua l'irrealtà di quella scena ingabbiata in una prospettiva tanto rigorosa da non contemplare l'errore. Non ha niente di umano quel mondo e umani non sono i suoi abitanti, che nulla sentono e nulla vogliono comunicare. È il mondo platonico delle idee, immutabile e atemporale, ciò che traspare nell'immanente grazie al pennello dell'artista.
La luce di Piero
La stessa luce meridiana, limpida e cristallina che ammalia nella Flagellazione di Cristo bagna tutte le opere di Piero come una colata dolce e solenne, che accenna appena le ombre con delicatezza.
I suoi cieli sono tersi, striati di bianche nuvole immobili, come quello che si specchia nel fiume abbracciando, al pari di una guaina luminosa, la pacata centralità del Battesimo di Cristo della National Gallery e l'altro che accoglie la potente spinta ascensionale della ieratica e maestosa figura del Cristo nella Resurrezione di Borgo, la cui potenza spinse Aldous Huxley a definirlo "il dipinto più bello del mondo". Parole a cui peraltro dobbiamo essere tuttora grati, perché furono ciò che durante la Seconda guerra mondiale spinse il capitano inglese Antony Clarke a disobbedire agli ordini ricevuti e risparmiare dai bombardamenti la città di Sansepolcro.
Diafano e delicatamente sfumato è il cielo del Doppio ritratto dei duchi di Urbino, senza nuvole per non sporcare la linea dei due profili che si stagliano netti e iconici con tutta la forza della ritrattistica aulica. Ma anche quando la scena si svolge in un interno, come nella Sacra conversazione di Brera, è sempre la luce a scandire la profondità, a misurare lo spazio, a tornire i corpi e a far emergere l'uovo dall'ombra in violento controluce per renderlo protagonista assoluto.
C'è infine una scena notturna, "la più inaspettata di ogni tempo italiano", per dirla con Roberto Longhi, che chiama in causa il luminismo del Caravaggio, quello di Rembrandt e l'atmosfera pulviscolare di Seurat. Il sogno di Costantino, il più emozionante fra gli affreschi del ciclo di Arezzo è diverso da tutti gli altri lavori di Piero, ma anche qui la protagonista assoluta è ancora una volta la luce. E quel lume che si sprigiona dalle mani dell'angelo e scende morbido a plasmare i volumi dà vita a un notturno silenzioso e fiabesco. Un incanto per gli occhi, dove tutto parla di miracolo.
Il più moderno degli antichi
Lo sguardo di Piero, la sua serena contemplazione del mondo che pare allontanare ogni tensione, i suoi spazi immobili permeati dalla luce, luoghi dell'essere più che del divenire, il suo supremo senso dell'ordine che riflette nelle sembianze della realtà il divino e l'assoluto, al pari della sua ricchezza filosofica e concettuale, di cui si intuisce la portata, sono forse ciò che ha portato tanti artisti della modernità a meditare sulla sua opera.
Non solo Cézanne, con cui la critica ha da tempo avanzato un parallelismo, Seurat, o Degas, ma un flusso ininterrotto che attraversa tutto il '900 contagiando i pittori della metafisica, in primis De Chirico, i cubisti, Morandi, Balthus, Botero, Sironi, passando per Hopper, Casorati e il realismo magico, per finire al cinema di Pasolini e approdare alla mostra che proprio in questi giorni la Galleria Nazionale di Roma dedica a Ettore Spalletti, il maestro abruzzese recentemente scomparso, dal titolo evocativo Il cielo in una stanza.
È quello l’ultimo tributo, in ordine di tempo, al grande maestro di Borgo. Un gigantesco uovo posto al centro della sala, che possiede tutta l’incorporea, traslucida magia di uno dei cieli di Piero.